lunedì 30 dicembre 2013

Eleganza e semplicità - La Danza di Henri Matisse e il Franciacorta



E' ormai da una settimana che si sbevazza alla grande in occasione delle festività natalizie, e non si è ancora giunti alla fine di questo ciclo di mangiate pantagrueliche: oggi infatti è la volta di S. Silvestro, un giorno che, al di là del festone di fine anno, io ho sempre reputato molto importante.

Quando ero un'adolescente goffa e sfigata ho introdotto una sorta di rito propiziatorio in cui con le mie amiche scrivevamo i desideri e i propositi per l'anno nuovo e li bruciavamo all'interno di un posacenere in terracotta.


Era un modo abbastanza poetico per compensare la mancanza dei fuochi d'artificio che i nostri genitori non ci avevano permesso di far scoppiare, e noi morivamo dalla voglia di dar fuoco a qualche cosa. Quest'anno invece, mi scopro essere una giovane adulta pur sempre goffa e sfigata, forse un po' più matura di un tempo, e anziché dedicare tutte le mie attenzioni a quelli che sono i miei desideri più ardenti (perdere 7 chili e trovare un lavoro redditizio) credo che il mio maggiore interesse per la festa di stasera sia quello di salutare l'anno che sta per finire con sincero affetto, perché mi sono divertita un sacco ed ho fatto delle bellissime esperienze.

Cercando un vino per brindare al passaggio dal 2013 al 2014, mi è tornata in mente la frase che dissero i miei docenti del corso di sommelleria durante la nostra primissima degustazione: "Questo è il vino della gioia e della festa!", si riferivano alla Cuvée Brut di Bellavista.

Uno spumante metodo classico che mi ha subito colpito molto: l'ho adorato al primo sorso nonostante mi trovassi agli inizi della mia avventura nell'enomondo, quando non sapevo ancora apprezzare certi vini spiccatamente freschi (che solo tre anni fa chiamavo acidi).

Si tratta di un prodotto di indiscussa finezza, derivato dall'unione di Chardonnay (80%) Pinot Nero e Bianco (20%) "provenienti da più di 100 appezzamenti, coltivati in 10 comuni della Franciacorta", affinati in rovere ed arricchiti dai vini di riserva delle vendemmie precedenti.

Quel che mi interessa di più di questo vino, come spesso accade, sono i suoi profumi: pera matura, agrumi, banana, burro, lievito, crosta di pane regalano una sensazione semplice, domestica confortevole che secondo me ha un ruolo significativo nel costruire l'eleganza per cui questo spumante è tanto noto. Genuino e sincero anche nel sapore che, accompagnandosi divinamente a della pizza bianca farcita con mortadella, conferma quanto la semplicità sia preponderante tra le caratteristiche di questo vino.
Può sorprendere il fatto che uno spumante così raffinato si abbini a un cibo tanto semplice, eppure per pulire la bocca da grassezza e untuosità ed esaltare la tendenza dolce della mortadella non c'è niente di meglio di un vino fresco e dall'effervescenza equilibrata.
Però, siccome io la mortadella non la digerisco (e non digerisco neanche il fatto che non esista una pensione d'invalidità per chi, come me, è intollerante agli insaccati) ho pensato di gustarmi questo vino accompagnandolo a qualcos'altro capace di rispecchiare questo interessante chiasmo di semplicità ed eleganza.


La Danza che Henri Matisse dipinge nel 1909 per il suo cliente abituale Sergei Shchukin e che oggi è conservata al MOMA di New York, sembra starci bene come il cacio sui maccheroni.
Si tratta di una tela molto grande (260 cm × 391 cm) e dalla resa davvero impressionante. A suscitare meraviglia non sono solamente le dimensioni del dipinto o i personaggi giganteschi che sembrano travolgerci, ma anche i complessi rapporti tra lo spazio, i colori e le figure. Sono proprio queste proporzioni, accuratamente studiate, a trasformare un'immagine all'apparenza così semplice in un capolavoro espressionista di fama mondiale.
Ci troviamo di fronte alla seconda opera d'arte più copiata dai bambini per gli esercizi di educazione artistica alle scuole medie*: un girotondo di corpi nudi che si svolge tra la terra e il cielo, e questi tre unici elementi vengono identificati tramite un colore per ciascuno di essi e delle linee di contorno. Non c'è volume, né contrasto di luci e ombre, nessuna prospettiva.
E' l'equilibrio di questa composizione a suggerire che c'è qualcosa in più di tre colori, su questa tela. Il movimento dei corpi ci permette di percepire un ritmo forsennato e interminabile; vorremmo inserirci anche noi e seguire quello stesso bisogno primordiale di girare in tondo senza preoccuparci del perché lo stiamo facendo. Vogliamo essere felici e spensierati, vogliamo seguire l'ordine naturale delle cose, accettarlo per quello che è e farne serenamente parte.
Tutto questo con tre colori e delle linee di contorno.
Becca e porta a casa.
(non che qualcuno leggendo questo post debba necessariamente "abbozzare", è che mi sembra che ci stia bene un "becca e porta a casa" in questo punto del post)
«il mio obiettivo è rappresentare un'arte equilibrata e pura, un'arte che non inquieti né turbi. Desidero che l'uomo stanco, oberato e sfinito ritrovi davanti ai miei quadri la pace e la tranquillità» (H. Matisse)

E io nei quadri di Matisse la pace e la tranquillità ce le trovo.
Se poi in mano ho anche un bicchiere di Franciacorta è proprio una gran pacchia.

*la prima è la Composizione A di Mondrian**
**ci presi ottimo, in seconda media.

martedì 3 dicembre 2013

Moira Ricci e il Barco Reale di Carmignano

Quello di oggi è un post davvero particolare e sono molto felice di condividerlo.
Innanzitutto si tratta di un articolo scritto ad otto mani! Eh si, adesso GewürzARTminer si apre anche alle collaborazioni! :D


Dunque, mi pare opportuno anticipare che questo sarà un post lunghissimo!

All'origine di quest'edizione così speciale c'è il lavoro svolto da me e le mie compagne di studio Giulia Giovannetti, Silvia Carletti e Elisa Sorrentino per il secondo incontro del ciclo di seminari dal titolo "Fotografia, identità e genere" tenutosi il 25 novembre scorso, in cui abbiamo avuto il piacere di intervistare la giovane artista Moira Ricci.

Poiché quest'esperienza si è da subito rivelata sorprendentemente bella, il pensiero di dedicarvi un post apposito qui sul blog non ha tardato a presentarsi, e  siccome sono molto fiera del risultato ottenuto da me e le mie compari, ho deciso sin dai primi giorni di lavoro che avrei pubblicato con tutta probabilità il testo da noi scritto per presentare l'artista al pubblico:

Moira Ricci durante il secondo incontro di "Fotografia, identità e genere"


"Giovane artista originaria di Orbetello, in provincia di Grosseto, Moira Ricci ha trascorso la propria infanzia nella campagna toscana, circondata dall’amore familiare, da cui si è dovuta allontanare in giovane età per trasferirsi a Milano e seguire gli studi di fotografia, prima al centro di formazione professionale Bauer e poi all’Accademia di Belle Arti di Brera.I primi apprezzamenti ufficiali dal mondo dell’arte sono arrivati all’età di 23 anni: dopo la sua prima collettiva – tenutasi nel 2001 a Milano dal titolo Videorom 2.0 – ha esposto in molteplici eventi in gallerie italiane, europee e americane e in due esposizioni personali – INTERFUIT nel 2006 e Da Buio a Buio nel 2009 – ottenendo diversi riconoscimenti, tra cui il primo premio RICCARDO PEZZA del 2000 e quello della “Biennale giovani” di Monza del 2011.
Il lavoro della Ricci trae sempre origine da una necessità personale, è risultato delle esperienze vissute, espressione della volontà di ricordare e insieme custodire il proprio passato. Nelle sue opere i mezzi della fotografia, della videoripresa e, talvolta, della performance sono spesso chiamate a collaborare, per consentire all’artista di esplorare temi principalmente autobiografici e ricostruire la propria storia personale. Quelle della memoria e dell’identità individuale e sociale sono, non a caso, alcune delle tematiche più ricorrenti nei suoi lavori e nelle osservazioni di chi la intervista, giacché la sua produzione, come spiega lei stessa, procede di pari passo con la sua esperienza di vita, è un’autobiografia in fieri[1].
A costituire la complessa costruzione del concetto d’identità sembrano essere, a nostro avviso, tre temi fondamentali: quelli della famiglia, del territorio e della casa.

Attorno al primo tema, quello familiare, si sviluppa il lavoro più noto di Moira Ricci: la serie fotografica 20.12.53-10.08.04, nata dall’improvviso lutto che nel 2004 l’ha colpita: la perdita della madre Loriana. Nella serie, iniziata nel 2004 e conclusa due anni più tardi, l’artista inserisce, attraverso i mezzi del fotomontaggio digitale, la propria figura in una selezione di vecchi scatti che ritraggono la madre. La particolarità che contraddistingue quest’opera è forse la scelta di un iperrealismo capace di disorientare l’osservatore. Moira Ricci cura ogni possibile aspetto determinante la costruzione di un’illusione temporale, grazie alla quale l’impossibile compresenza di madre e figlia in scatti cronologicamente lontani non desta alcun tipo di stupore. A meno che non si conosca il volto dell’artista non si può fare a meno di credersi davanti a delle semplici foto ricordo, dal momento che la Ricci provvede a indossare abiti della moda del periodo e curare attentamente la posa e l’effetto delle luci. L’unico dettaglio che tradisce la perfezione di questo iperrealismo è lo sguardo dell’artista, sempre indirizzato alla madre, come nell’invano tentativo di comunicare con lei. Attraverso il suo lavoro Moira Ricci trasforma la fotografia in un luogo dove rincontrare la madre, come ha raccontato l’artista stessa: “Volevo recuperare il tempo perso passato lontano da lei: così mi sono creata una nuova realtà, sono entrata nelle sue vecchie fotografie, immaginando di esserle lì accanto”.[2]

Dalla serie 20.12.53-10.08.04
Dalla serie 20.12.53-10.08.04
                     
Il dialogo che l’artista instaura con la figura materna viene ulteriolmente elaborato in opere successive, come il video del 2007 Ora sento la musica, chiudo gli occhi, sento il ritmo che mi avvolge, fa presa nel mio cuore – in cui, ancora una volta, l’artista mette in gioco i ricordi personali per dare vita a una performance direttamente dedicate alla madre – e Per sempre con te fino alla morte, del 2012.

Dalla serie Per sempre con te fino alla morte - 2012

Dalla serie Per sempre con te fino alla morte - 2012
In quest’ultima la Ricci tenta di andare indietro fino alle radici dell’affetto familiare, all’amore tra i genitori che è stato alla base della sua crescita. La realtà concreta del ricordo affiora mediante la documentazione di lettere, foto, ritagli di frasi spediti dal padre di Moira alla futura moglie Loriana e si concentra in seguito, tramite la videoripresa, sul lutto del padre, da lui espresso dedicando canzoni all’amata perduta per poi cercare conforto nell’atmosfera conviviale e sociale delle balere. In questi luoghi la Ricci ha osservato a lungo i comportamenti dei vedovi in cerca di un nuovo amore, che le riportano alla mente qualcosa di familiare, simile agli innamoramenti adolescenziali e la inducono a interrogarsi sulla realtà sentimentale della propria generazione. Racconta l’artista: «Mi sono calata nella loro età, nella loro situazione pensando a chissà se anche noi saremo così, se c’incontreremo in luoghi alla ricerca di una compagnia fino alla morte»[3].

Dalla serie Da buio a buio - 2009
Al secondo tema, quello del territorio, è dedicata la documentazione delle vite di alcuni celebri protagonisti delle vicende di cronaca della campagna maremmana, realizzata nel 2009 e intitolata Da Buio a Buio. Qui invece, l’iperrealismo è lo strumento in grado di concretizzare le leggende popolari radicate nell’immaginario collettivo Maremmano. Strani personaggi come la Bambina cinghiale, l’Uomo sasso o Vasco Lumediluna (un misterioso licantropo), conosciuti in una località circoscritta tramite la tradizione orale, grazie all’opera della Ricci prendono forma e si mostrano ad un vasto pubblico che incredulo viene a contatto con l’intimità dei luoghi in cui l’artista è cresciuta.


Loc. Collecchio, 26 - 2001
Il terzo tema, quello della casa, viene affrontato in due lavori, entrambi espressione dell’importanza che il nucleo familiare e i luoghi dell’infanzia hanno avuto per la formazione dell’identità dell’artista. In Loc. Collecchio, 26 del 2001, attraverso la tecnica del collage fotografico, l’artista ricostruisce gli ambienti della sua prima casa e li popola di tante piccole immagini di se stessa, ritagli delle foto scattatele dalla madre. Attraverso quest’operazione la Ricci ottiene delle immagini che si trovano a metà strada tra il gioco della casa delle bambole e la dolcezza mista a malinconia propria delle foto di famiglia. L’opera nasce dall’esigenza di fermare nella memoria il ricordo della casa di Orbetello a causa della ristrutturazione che avverrà di lì a poco e trasformerà definitivamente quel luogo tanto familiare ai suoi occhi. Una Moira ancora neonata fa il bagnetto, dietro di lei Moira adolescente sfoggia il suo costume giallo, poco più in là Moira, ora giovane donna, posa per lo scatto, con gli occhi infastiditi dalla potente luce del sole estivo. 
Custodia domestica - 2003/04 
Custodia domestica -2003/04

Per la Ricci la casa è anche il luogo in cui sentirsi protetti, con cui farsi scudo. E così sceglie di indossarla come capsula di sicurezza in una metropoli in cui si sente confusa e sperduta, dando vita alla performance milanese, poi trasformata nell’installazione video del 2003-2004 dal titolo “Custodia domestica”. L’artista ricostruisce la propria casa in miniatura, su ciascuna faccia del cubo una finestra mette in comunicazione l’interno con l’esterno, facendo risaltare il bizzarro contrasto fra la grandezza dei passanti che, incuriositi, si affacciano per sbirciare e l’atmosfera intima che regna in queste minuscole stanze, arricchito dall’audio che ripropone i tipici rumori domestici.


Raccontando l’esperienza personale con questa profonda sincerità Moira Ricci porta lo spettatore a identificarsi, attraverso un “effetto specchio”, nella storia narrata e quindi a riflettere sulla propria, riconoscendo con quanta energia la memoria agisca su ogni singolo individuo. Con la forza e il dolore necessari per fare della propria vita un’opera d’arte l’artista si esplora e si racconta, parte da sé senza la presunzione di voler insegnare nulla, ma con il coraggio di rendere espliciti i propri strumenti di ricerca e catarsi. Aggiungendo ulteriori livelli di lettura a materiali visivi estrapolati dal proprio contesto familiare, l’artista permette allo spettatore di indagare nella sua realtà più privata di bambina, donna, artista, maremmana e viaggiatrice. E allo stesso tempo i suoi lavori si staccano da lei per dirci qualcosa del nostro essere persone, figli, genitori, abitanti e viaggiatori.





Da sinistra a destra: Giulia Giovannetti, Elisa Sorrentino, Moira Ricci, io e Silvia Carletti.



[1] Simi G., Assenza/presenza in Moira Ricci. Immagine (im)possibile O Iperrealismo?, http://www.digicult.it/it/digimag/issue-052/absencepresence-impossible-images-by-moira-ricci/.
[2] Fincato O., Viaggio negli affetti di un’artista, http://www.oggi7.info/2008/01/14/636-viaggio-negli-affetti-di-unartista,
[3] Carnevale R., Con te fino alla morte – Intervista a Moira Ricci, http://quotemagazine.it/per-sempre-con-te-fino-alla-morte-moira-ricci/, 2013.

---------------------------------
Nonostante questa abilità nell'elaborare contenuti molto complessi e personali, la Ricci si è presentata al suo pubblico di Studenti e Professori universitari con spontaneità ed umiltà, guadagnadosi la simpatia e l'ammirazione di molti di noi.


Sulla scia di temi quali semplicità, famiglia, identità e "toscanità", penso che il vino maggiormente capace di rappresentare l'opera generale della Ricci possa esser il Barco Reale di Carmignano prodotto dalla Fattoria Ambra, un vino ovviamente Toscano, tanto semplice quanto ricco, ossimoro che ho trovato piuttosto coerente in questo caso.
Tanto per iniziare, anche questo vino, come la Ricci, può vantare qualche riconoscimento prestigioso, infatti, come possiamo leggere dal sito della produzione, nel 2010 guadagna 2 stelle nella guida Veronelli, mentre l'annata successiva viene valutata 90/100 da Stephen Tanzer.
Un vino molto apprezzato, considerato "la versione più giovane del Carmignano, una delle più piccole e antiche denominazioni del mondo (Bando del Granduca Cosimo III de'Medici del 1716)" stando a quanto recita la controetichetta della bottiglia. Si tratta di un taglio tradizionale della zona: Sangiovese in prevalenza (75%) accompagnato a una piccola percentuale di Cabernet, indicato qui come Uva Francesca (cosa che mi fa sempre gongolare), brevemente affinato in tonneaux.
Inzialmente è stata la versatilità di questo vino nell'abbinamento con il cibo, a ricordarmi le opere della Ricci, così capaci di raccontare tanto la vita dell'artista quanto la nostra. L'idea delle grandi tavolate in famiglia in occasione del pranzo della domenica mi ha fatto associare questo vino alle numerose foto di gruppo spesso trasformate dall'artista.
Anche il colore, un porpora leggermente rossastro, fa percepire quanto un vino semplice come questo possa aver qualcosa da dire.
La ragione per cui il Barco Reale mi pare particolarmente azzeccato è principalmente dovuta, però, alla singolare raffinatezza dei profumi di un vino così dichiaratamente beverino. Una bevanda da tutto pasto, dall'alcolicità garbata (13%), che al naso sa legare aromi decisi di piccoli frutti rossi e susine mature a sentori speziati e caldi come pepe, karkadè, un po' di vaniglia e un "cincinnino"* di caffè. 
Un vino che, nonostante la sua immediata gradevolezza, cela una gamma di profumi intensi, variegati e pulsanti, allo stesso modo in cui i montaggi fotografici di Moira Ricci, dopo una prima sensazione di tenerezza ci portano a riflettere su questioni "brucianti" come la memoria, la nostalgia e l'identità individuale e collettiva.





*perché essere formali, precisi o tecnici è pizzoso.

venerdì 30 agosto 2013

Che direbbe Nancy Spero di zia Roberta?

Roma, Biblioteca Nazionale, 30-07-2013 h.11.26

E' da qualche giorno che ho iniziato a studiare per un esame di storia dell'arte contemporanea. Neanche una settimana fa ho acquistato i libri su internet, seccata dall'ipotesi di incontrare numerose difficoltà nello studio della materia, dato che a lezione mi sono sempre sentita come Alberto Sordi alla Biennale di Venezia, giusto per restare in tema.


Fortunatamente, sebbene il libro non sia meno complesso delle lezioni, la possibilità di poter rileggere anche 4 o 5 volte la stessa pagina mi ha reso le cose molto più chiare.
E questo è un bene, non solo perché le mie chances di superare l'esame ora sono decisamente aumentate, ma anche perché ho capito che il tema del corso mi è particolarmente vicino.
Sono sempre restia nel riconoscere vicende personali nelle cose con cui entro in contatto, ma alcune volte non se ne può proprio fare a meno.
Alle 11.25, un minuto prima di iniziare a scrivere questo post, il neanche troppo lungo flusso di coscienza avviato da un saggio su Nancy Spero si è concluso, e non sto dicendo per dire, con un forte batticuore, forse una specie di attacco di panico.
Non so se definire l'episodio uno dei miei soliti eccessi di emotività (io ho pianto quando la Sirenetta si è trasferita sulla terra ferma immedesimandomi nel padre, Tritone, che non l'avrebbe più rivista, specie dopo il mazzo cosmico che si è fatto per salvarla da quella seppia obesa di Ursula), o se forse è il caso di farsi vedere da un cardiologo, ma certo è che conoscere l'opera della Spero ha innescato in me un complicato parapiglia di emozioni.

Oggi ho imparato che tra gli anni '60 e '80 questa artista ha dedicato la sua attività alla causa femminista. In quegli anni molte donne in diversi ambiti hanno fatto lo stesso, ma il modo in cui lei ha affrontato la questione mi ha intimamente colpita.

La sua produzione presenta caratteristiche ricorrenti, come l'uso di materiali poveri (carta da disegno, carta di riso) e di tecniche all'epoca ritenute anti-convenzionali come lo stencil e il collage, su delle superfici insolitamente lunghe e strette. Altre peculiarità delle sue opere sono gli elementi figurativi, estremamente stilizzati e in scala ridotta, posti in modo apparentemente disorientato nello spazio, accompagnati da frammenti di scritti, tra i quali soprattutto quelli di Antonin Artaud (da qui l'enorme Codex Artaud 1971-73).
Dal 1974, le sue piccole figure rappresentano esclusivamente donne.


"Dopo la forte attrazione per i testi e le vicende di Antonin Artaud (la follia, l'emarginazione, l'esclusione, la censura) decide che nelle sue opere le figure sarebbero state quelle appartenenti a una storia delle donne, del loro passato e del loro presente, senza cronologie, assemblando storie, stati d'animo, condizioni di vita in una narrazione che è possibile percorrere in molte diverse direzioni. Il piccolo, in queste opere successive è tale in relazione allo spazio circostante: ha relazioni con il fatto che si usino molte figure come le immagini di una scrittura dove le singole lettere o i caratteri sono al loro posto per partecipare a un discorso complessivo. [...] La storia, che queste opere vogliono raccontare, è una storia di vicende non note, in scala minore. La riduzione ha dunque molteplici livelli di senso [...] La "scala" o la misura che la storia ha utilizzato per ordinare i fatti nel tempo, e che Nancy Spero prova a ribaltare, è infatti grande, monumentale; ha costruito e reiterato narrazioni a senso unico [...] La concezione alla base di una storia così impostata era la selezione degli eventi, la loro classificazione e la messa a punto di macro-sistemi dai quali il micro-fatto era escluso o comunque ininfluente. Il piccolo, da sempre, ha portato con se significati di minore importanza, è stato meno visibile e è restato ai margini della visione; nelle gerarchie o nelle classificazioni è stato posto in basso. [...] Piccolo è stato considerato anche il minimo, l'intimo, lo spazio del segreto, ciò che resta di una riduzione, qualcosa che può esistere al livello del frammento e del residuo. Piccoli poi sono divenuti, per estensione di una fenomenologia delle misure e delle classificazioni, anche molti generi, razze, paesi e territori. Questa dicotomia, per Nancy Spero, doveva essere ripensata.
Il piccolo, nella storia, è stato avversato, marginalizzato, eliminato; era la "differenza" negata rispetto al grande, al monumentale e all'importante."
(Subrizi 2012)

Finito di leggere questa pagina, mi sono chiesta chissà cosa avrebbe pensato oggi la Spero della parola "Femminicidio", "l'emergenza femminicidio" di cui da un anno a questa parte si parla tanto, come se fosse una frenesia di questi ultimi tempi, l'assassinio o il maltrattamento delle donne.
Chi lo sa, forse già il fatto che la questione sia diventata un fenomeno mediatico dovrebbe sembrare un risultato. Forse la Spero sarebbe contenta di vedere che almeno durante il TG le storie delle donne non sono più tanto piccole, che sono emerse, sotto la lente d'ingrandimento dello schermo televisivo (che in alcuni casi, come direbbe la Palombelli, ha il compito di fare giustizia lì dove la legge fallisce).

Ad esempio, io conosco una storia che prima era piccolissima, e che ora ha fatto il giro d'Italia.
Mia zia Roberta, viveva una comune vita in un paese così piccolo che se non fosse scomparsa quasi nessuno l'avrebbe mai conosciuta. Magari non la conoscesse ancora nessuno.
Ah, per scomparsa non intendo morta, eh, intendo proprio sparita nel nulla, volatilizzata. Il 13 gennaio non era più in casa e da quel momento la vita della mia famiglia è, in un certo senso, cambiata. La campana di vetro sotto la quale vivo, se non è andata in frantumi, è sicuramente piena di crepe, dopo questo fatto. 
Mia zia, fino a qualche anno fa era una donna come tante, ma per certi versi migliore. A casa mia, sebbene non la frequentassimo spesso, per via della distanza (noi di Roma, lei di Pisa) non era infrequente pensare a lei, che era tutta "precisina", iper-organizzata, molto bella ed affettuosa. Ad esempio, quando mia mamma si preparava per uscire chiedeva a me e a mia sorella come stava, e non era raro che le si rispondesse: "stai bene, sembri zia Roberta!". Mamma, ancora non crede di somigliarle, anche se ogni volta i giornalisti hanno detto che ha il suo stesso viso. A volte lo hanno detto anche a me e la cosa mi ha inorgoglito parecchio.
Insomma, zia faceva, fa, parte della nostra vita, non so se posso arrivare a dire che l'avessimo adottata per alcune cose ad una figura di riferimento, ma tutti noi l'abbiamo sicuramente riconosciuta come una persona esemplare. Ora sicuramente per me, e credo anche per molte altre donne è un simbolo.
La sua storia, non quella della sua scomparsa, quella della sua vita, è fonte di numerosi insegnamenti dal momento che è ricca di ingiustizie.
Però la cosa incredibile è ciò che ha catturato tanto l'attenzione della gente, probabilmente non è stata l'enorme quantità di tristezza e solitudine che ha caratterizzato la sua vita e soprattutto i suoi ultimi anni, ma le storie di chi la conosceva riguardo il suo carattere e il suo modo di gestire le sue giornate impegnatissime, nelle quali trovava anche il tempo di arrivare nella palestra dove mia cugina faceva danza un quarto d'ora prima della fine della lezione, per metterle l'accappatoio sul termosifone degli spogliatoi così da non farle sentire freddo una volta uscita dalla doccia.

Il fatto che zia Roberta sia sparita è tragico ed importante. L'unica cosa che mi ha aiutato ad accettare il fatto che ora non ci sia più è che la sua storia non sia passata inosservata. Credo abbia mandato un messaggio a tante altre donne, nella sua stessa situazione e a tante altre giovani donne che corrono il rischio di trovarcisi in futuro.
Se non fosse scomparsa, la sua vita sarebbe rimasta un piccolo drammatico fatto. Tante donne non avrebbero capito che certe condizioni non vanno accettate.
Ovviamente non intendo dire che tutta questa faccenda sia positiva o abbia dei risvolti positivi, sto parlando di mia zia, una donna alla quale ho sempre voluto bene; che per molti versi ho ammirato; che non vedevo l'ora di incontrare l'estate per raccontarle cosa facevo, perché sapevo che avrebbe accolto le mie notizie con entusiasmo. Era una capace di essere felice per gli altri e che meritava di essere felice.
Nancy Spero forse vedrebbe in lei un'icona che è stata in grado di rendere grande ciò che fino adesso è stato quasi invisibile.
Senza citare brani di elettronica anni '80, ad oggi ho adottato zia Roberta come il mio Gesù personale, mamma sa di cosa parlo.

Mi manca e mi fa soffrire il fatto che non potrò incontrarla più.


-----------------------------
CARLA SUBRIZI, Azioni che cambiano il mondo. Donne, arte e politiche dello sguardo, 2012, Milano, Postmediabooks srl, p.76


venerdì 23 agosto 2013

Asprezza spigolosa - Kirchner e l'Asprinio d'Aversa

E.L. Kirchner, Cinque donne per la strada, 1913, Museo Ludwig, Colonia
Ci ho messo una vita a decidere se pubblicare o meno questo post.

Ho preso appunti e scritto bozze che mesi fa ho accantonato da una parte convincendomi del fatto che è impossibile anche solo pensare di abbinare un'opera dell'espressionismo tedesco più crudo e deprimente con un vino così ben capace di rappresentare gli aspetti più caldi e piacevoli del mediterraneo.


Si tratta senz'altro di un accostamento stridente, come del resto ritengo sia il vino di cui scrivo oggi: l'Asprinio d'Aversa prodotto dai Martusciello di Grotta del Sole.





Anche in questa occasione, vi beccate una foto presa dal sito dell'azienda dal momento che ogni volta che mi capita di assaggiare qualcosa  dimentico puntualmente di fotografare bottiglia e bicchiere.


Si tratta di un vino semplice, tuttavia io l'ho trovato per niente banale grazie al contrasto tra profumi intensi e caldi per un vino tanto fresco e secco. Prodotto con il 100% di asprinio, coltivato mediante la tradizionale alberata aversana introdotta dagli etruschi, è un vitigno che affonda le radici in un terreno alluvionale e di origine vulcanica. E' un vino leggero (11,5-12%), molto interessante e il prezzo di una bottiglia si aggira intorno ai 7 euro.


Al bicchiere si presenta come un liquido cristallino e di un giallo paglierino molto pallido vivacizzato da riflessi verdolini. Pare di avere fra le mani la lente capace di deformare e di tingere di colori acidi le figure scelte da Kirchner per realizzare la sua idea della miseria umana.



Il bagaglio olfattivo del vino, piacevolmente variegato, si compone principalmente dei profumi citrini di ogni possibile tipo d'agrume immaginabile: mandarino, lime, cedro e pompelmo su tutti affiancati da altra frutta acida come kiwi e mela verde si legano in modo originale a sentori floreali di biancospino e note verdi che ricordano il timo limoncino.


L'assaggio è pungente. Dopo aver inalato profumi tendenzialmente dolci, inondare le papille da tanta acidità è un po' come ricevere uno schiaffone del tutto inaspettato, nonostante il nome stampato sull'etichetta, che mitiga sicuramente l'effetto sorpresa che un esame organolettico a bottiglia coperta potrebbe suscitare. Ho trovato la freschezza peculiare di questo vino gradevolmente bilanciata da una giusta morbidezza e sapidità e l'insieme di queste caratteristiche così ben legate rendono la degustazione davvero piacevole.
Contrariamente a quanto il titolo poteva lasciar credere, gli spigoli a cui questo accenna non si riferiscono quindi ai polialcoli presenti nel vino, bensì a quelli visibili nelle opere di Ernst Ludwig Kirchner.
E.L. Kirchner, Nollendorf Platz, 1912, Stiftung Stadtmuseum Berlin, Berlin
Principale esponente della formazione artistica Die Brücke, contribuisce allo sviluppo di uno stile pittorico duro e violento, capace di creare una realtà materica e consistente partendo dal nulla della tela in perfetta linea con il proposito primario dell'espressionismo tedesco di cercare un linguaggio capace di indagare la genesi dell'atto artistico al di là di ogni significato razionale. Da qui deriva il distacco dalle forme e dai colori verosimili determinato da fattori soggettivi che rendono l'opera "comunicazione da uomo a uomo" (Argan, 1970).


"La poetica espressionista, che rimane pur sempre fondamentalmente idealistica, è la prima poetica del brutto: ma il brutto non è altro che un bello caduto e degradato." (Argan, 1970).



Dunque forse le opere di Kirchner sono da definirsi amare, piuttosto che aspre. Ma è passato molto tempo da quando queste sono state realizzate e, come ben possiamo immaginare, la presenza delle opere nel mondo nell'intervallo di tempo tra la conclusione di esse per mano dell'artista e il momento in cui giungono a noi, fa si che queste si carichino di molti più significati e, nel nostro caso, sapori.

Basterebbe porsi una domanda fin troppo banale: che riflessioni suscita in me l'osservazione di questi dipinti? Oppure chiedersi: quanto è cambiato il mondo che Kirchner ha immortalato?
E la risposta ci coglie con la stessa immediatezza con cui il primo assaggio di Asprinio ci aveva dato uno schiaffo in faccia e pugnalato la lingua.
Guardare oggi la civiltà tedesca delle tele di Kirchner (risalente al primo '900) significa riconoscere che non abbiamo fatto tanti passi avanti e riflettere bene su quanto poco sia equa e giusta la società che abbiamo costruito ad oggi, nonostante numerose occasioni di conflitto mondiale avrebbero dovuto spingere la collettività a correggersi.

Non si può che avvertire asprezza, alla luce di un fallimento così drammatico e  le figure dipinte da Kirchner possono risultare deformi, ma la trasparenza delle sue tele sulla società è più verosimile e concreta della realtà che i nostri occhi sanno percepire.


uno dei miei preferiti