venerdì 30 agosto 2013

Che direbbe Nancy Spero di zia Roberta?

Roma, Biblioteca Nazionale, 30-07-2013 h.11.26

E' da qualche giorno che ho iniziato a studiare per un esame di storia dell'arte contemporanea. Neanche una settimana fa ho acquistato i libri su internet, seccata dall'ipotesi di incontrare numerose difficoltà nello studio della materia, dato che a lezione mi sono sempre sentita come Alberto Sordi alla Biennale di Venezia, giusto per restare in tema.


Fortunatamente, sebbene il libro non sia meno complesso delle lezioni, la possibilità di poter rileggere anche 4 o 5 volte la stessa pagina mi ha reso le cose molto più chiare.
E questo è un bene, non solo perché le mie chances di superare l'esame ora sono decisamente aumentate, ma anche perché ho capito che il tema del corso mi è particolarmente vicino.
Sono sempre restia nel riconoscere vicende personali nelle cose con cui entro in contatto, ma alcune volte non se ne può proprio fare a meno.
Alle 11.25, un minuto prima di iniziare a scrivere questo post, il neanche troppo lungo flusso di coscienza avviato da un saggio su Nancy Spero si è concluso, e non sto dicendo per dire, con un forte batticuore, forse una specie di attacco di panico.
Non so se definire l'episodio uno dei miei soliti eccessi di emotività (io ho pianto quando la Sirenetta si è trasferita sulla terra ferma immedesimandomi nel padre, Tritone, che non l'avrebbe più rivista, specie dopo il mazzo cosmico che si è fatto per salvarla da quella seppia obesa di Ursula), o se forse è il caso di farsi vedere da un cardiologo, ma certo è che conoscere l'opera della Spero ha innescato in me un complicato parapiglia di emozioni.

Oggi ho imparato che tra gli anni '60 e '80 questa artista ha dedicato la sua attività alla causa femminista. In quegli anni molte donne in diversi ambiti hanno fatto lo stesso, ma il modo in cui lei ha affrontato la questione mi ha intimamente colpita.

La sua produzione presenta caratteristiche ricorrenti, come l'uso di materiali poveri (carta da disegno, carta di riso) e di tecniche all'epoca ritenute anti-convenzionali come lo stencil e il collage, su delle superfici insolitamente lunghe e strette. Altre peculiarità delle sue opere sono gli elementi figurativi, estremamente stilizzati e in scala ridotta, posti in modo apparentemente disorientato nello spazio, accompagnati da frammenti di scritti, tra i quali soprattutto quelli di Antonin Artaud (da qui l'enorme Codex Artaud 1971-73).
Dal 1974, le sue piccole figure rappresentano esclusivamente donne.


"Dopo la forte attrazione per i testi e le vicende di Antonin Artaud (la follia, l'emarginazione, l'esclusione, la censura) decide che nelle sue opere le figure sarebbero state quelle appartenenti a una storia delle donne, del loro passato e del loro presente, senza cronologie, assemblando storie, stati d'animo, condizioni di vita in una narrazione che è possibile percorrere in molte diverse direzioni. Il piccolo, in queste opere successive è tale in relazione allo spazio circostante: ha relazioni con il fatto che si usino molte figure come le immagini di una scrittura dove le singole lettere o i caratteri sono al loro posto per partecipare a un discorso complessivo. [...] La storia, che queste opere vogliono raccontare, è una storia di vicende non note, in scala minore. La riduzione ha dunque molteplici livelli di senso [...] La "scala" o la misura che la storia ha utilizzato per ordinare i fatti nel tempo, e che Nancy Spero prova a ribaltare, è infatti grande, monumentale; ha costruito e reiterato narrazioni a senso unico [...] La concezione alla base di una storia così impostata era la selezione degli eventi, la loro classificazione e la messa a punto di macro-sistemi dai quali il micro-fatto era escluso o comunque ininfluente. Il piccolo, da sempre, ha portato con se significati di minore importanza, è stato meno visibile e è restato ai margini della visione; nelle gerarchie o nelle classificazioni è stato posto in basso. [...] Piccolo è stato considerato anche il minimo, l'intimo, lo spazio del segreto, ciò che resta di una riduzione, qualcosa che può esistere al livello del frammento e del residuo. Piccoli poi sono divenuti, per estensione di una fenomenologia delle misure e delle classificazioni, anche molti generi, razze, paesi e territori. Questa dicotomia, per Nancy Spero, doveva essere ripensata.
Il piccolo, nella storia, è stato avversato, marginalizzato, eliminato; era la "differenza" negata rispetto al grande, al monumentale e all'importante."
(Subrizi 2012)

Finito di leggere questa pagina, mi sono chiesta chissà cosa avrebbe pensato oggi la Spero della parola "Femminicidio", "l'emergenza femminicidio" di cui da un anno a questa parte si parla tanto, come se fosse una frenesia di questi ultimi tempi, l'assassinio o il maltrattamento delle donne.
Chi lo sa, forse già il fatto che la questione sia diventata un fenomeno mediatico dovrebbe sembrare un risultato. Forse la Spero sarebbe contenta di vedere che almeno durante il TG le storie delle donne non sono più tanto piccole, che sono emerse, sotto la lente d'ingrandimento dello schermo televisivo (che in alcuni casi, come direbbe la Palombelli, ha il compito di fare giustizia lì dove la legge fallisce).

Ad esempio, io conosco una storia che prima era piccolissima, e che ora ha fatto il giro d'Italia.
Mia zia Roberta, viveva una comune vita in un paese così piccolo che se non fosse scomparsa quasi nessuno l'avrebbe mai conosciuta. Magari non la conoscesse ancora nessuno.
Ah, per scomparsa non intendo morta, eh, intendo proprio sparita nel nulla, volatilizzata. Il 13 gennaio non era più in casa e da quel momento la vita della mia famiglia è, in un certo senso, cambiata. La campana di vetro sotto la quale vivo, se non è andata in frantumi, è sicuramente piena di crepe, dopo questo fatto. 
Mia zia, fino a qualche anno fa era una donna come tante, ma per certi versi migliore. A casa mia, sebbene non la frequentassimo spesso, per via della distanza (noi di Roma, lei di Pisa) non era infrequente pensare a lei, che era tutta "precisina", iper-organizzata, molto bella ed affettuosa. Ad esempio, quando mia mamma si preparava per uscire chiedeva a me e a mia sorella come stava, e non era raro che le si rispondesse: "stai bene, sembri zia Roberta!". Mamma, ancora non crede di somigliarle, anche se ogni volta i giornalisti hanno detto che ha il suo stesso viso. A volte lo hanno detto anche a me e la cosa mi ha inorgoglito parecchio.
Insomma, zia faceva, fa, parte della nostra vita, non so se posso arrivare a dire che l'avessimo adottata per alcune cose ad una figura di riferimento, ma tutti noi l'abbiamo sicuramente riconosciuta come una persona esemplare. Ora sicuramente per me, e credo anche per molte altre donne è un simbolo.
La sua storia, non quella della sua scomparsa, quella della sua vita, è fonte di numerosi insegnamenti dal momento che è ricca di ingiustizie.
Però la cosa incredibile è ciò che ha catturato tanto l'attenzione della gente, probabilmente non è stata l'enorme quantità di tristezza e solitudine che ha caratterizzato la sua vita e soprattutto i suoi ultimi anni, ma le storie di chi la conosceva riguardo il suo carattere e il suo modo di gestire le sue giornate impegnatissime, nelle quali trovava anche il tempo di arrivare nella palestra dove mia cugina faceva danza un quarto d'ora prima della fine della lezione, per metterle l'accappatoio sul termosifone degli spogliatoi così da non farle sentire freddo una volta uscita dalla doccia.

Il fatto che zia Roberta sia sparita è tragico ed importante. L'unica cosa che mi ha aiutato ad accettare il fatto che ora non ci sia più è che la sua storia non sia passata inosservata. Credo abbia mandato un messaggio a tante altre donne, nella sua stessa situazione e a tante altre giovani donne che corrono il rischio di trovarcisi in futuro.
Se non fosse scomparsa, la sua vita sarebbe rimasta un piccolo drammatico fatto. Tante donne non avrebbero capito che certe condizioni non vanno accettate.
Ovviamente non intendo dire che tutta questa faccenda sia positiva o abbia dei risvolti positivi, sto parlando di mia zia, una donna alla quale ho sempre voluto bene; che per molti versi ho ammirato; che non vedevo l'ora di incontrare l'estate per raccontarle cosa facevo, perché sapevo che avrebbe accolto le mie notizie con entusiasmo. Era una capace di essere felice per gli altri e che meritava di essere felice.
Nancy Spero forse vedrebbe in lei un'icona che è stata in grado di rendere grande ciò che fino adesso è stato quasi invisibile.
Senza citare brani di elettronica anni '80, ad oggi ho adottato zia Roberta come il mio Gesù personale, mamma sa di cosa parlo.

Mi manca e mi fa soffrire il fatto che non potrò incontrarla più.


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CARLA SUBRIZI, Azioni che cambiano il mondo. Donne, arte e politiche dello sguardo, 2012, Milano, Postmediabooks srl, p.76


venerdì 23 agosto 2013

Asprezza spigolosa - Kirchner e l'Asprinio d'Aversa

E.L. Kirchner, Cinque donne per la strada, 1913, Museo Ludwig, Colonia
Ci ho messo una vita a decidere se pubblicare o meno questo post.

Ho preso appunti e scritto bozze che mesi fa ho accantonato da una parte convincendomi del fatto che è impossibile anche solo pensare di abbinare un'opera dell'espressionismo tedesco più crudo e deprimente con un vino così ben capace di rappresentare gli aspetti più caldi e piacevoli del mediterraneo.


Si tratta senz'altro di un accostamento stridente, come del resto ritengo sia il vino di cui scrivo oggi: l'Asprinio d'Aversa prodotto dai Martusciello di Grotta del Sole.





Anche in questa occasione, vi beccate una foto presa dal sito dell'azienda dal momento che ogni volta che mi capita di assaggiare qualcosa  dimentico puntualmente di fotografare bottiglia e bicchiere.


Si tratta di un vino semplice, tuttavia io l'ho trovato per niente banale grazie al contrasto tra profumi intensi e caldi per un vino tanto fresco e secco. Prodotto con il 100% di asprinio, coltivato mediante la tradizionale alberata aversana introdotta dagli etruschi, è un vitigno che affonda le radici in un terreno alluvionale e di origine vulcanica. E' un vino leggero (11,5-12%), molto interessante e il prezzo di una bottiglia si aggira intorno ai 7 euro.


Al bicchiere si presenta come un liquido cristallino e di un giallo paglierino molto pallido vivacizzato da riflessi verdolini. Pare di avere fra le mani la lente capace di deformare e di tingere di colori acidi le figure scelte da Kirchner per realizzare la sua idea della miseria umana.



Il bagaglio olfattivo del vino, piacevolmente variegato, si compone principalmente dei profumi citrini di ogni possibile tipo d'agrume immaginabile: mandarino, lime, cedro e pompelmo su tutti affiancati da altra frutta acida come kiwi e mela verde si legano in modo originale a sentori floreali di biancospino e note verdi che ricordano il timo limoncino.


L'assaggio è pungente. Dopo aver inalato profumi tendenzialmente dolci, inondare le papille da tanta acidità è un po' come ricevere uno schiaffone del tutto inaspettato, nonostante il nome stampato sull'etichetta, che mitiga sicuramente l'effetto sorpresa che un esame organolettico a bottiglia coperta potrebbe suscitare. Ho trovato la freschezza peculiare di questo vino gradevolmente bilanciata da una giusta morbidezza e sapidità e l'insieme di queste caratteristiche così ben legate rendono la degustazione davvero piacevole.
Contrariamente a quanto il titolo poteva lasciar credere, gli spigoli a cui questo accenna non si riferiscono quindi ai polialcoli presenti nel vino, bensì a quelli visibili nelle opere di Ernst Ludwig Kirchner.
E.L. Kirchner, Nollendorf Platz, 1912, Stiftung Stadtmuseum Berlin, Berlin
Principale esponente della formazione artistica Die Brücke, contribuisce allo sviluppo di uno stile pittorico duro e violento, capace di creare una realtà materica e consistente partendo dal nulla della tela in perfetta linea con il proposito primario dell'espressionismo tedesco di cercare un linguaggio capace di indagare la genesi dell'atto artistico al di là di ogni significato razionale. Da qui deriva il distacco dalle forme e dai colori verosimili determinato da fattori soggettivi che rendono l'opera "comunicazione da uomo a uomo" (Argan, 1970).


"La poetica espressionista, che rimane pur sempre fondamentalmente idealistica, è la prima poetica del brutto: ma il brutto non è altro che un bello caduto e degradato." (Argan, 1970).



Dunque forse le opere di Kirchner sono da definirsi amare, piuttosto che aspre. Ma è passato molto tempo da quando queste sono state realizzate e, come ben possiamo immaginare, la presenza delle opere nel mondo nell'intervallo di tempo tra la conclusione di esse per mano dell'artista e il momento in cui giungono a noi, fa si che queste si carichino di molti più significati e, nel nostro caso, sapori.

Basterebbe porsi una domanda fin troppo banale: che riflessioni suscita in me l'osservazione di questi dipinti? Oppure chiedersi: quanto è cambiato il mondo che Kirchner ha immortalato?
E la risposta ci coglie con la stessa immediatezza con cui il primo assaggio di Asprinio ci aveva dato uno schiaffo in faccia e pugnalato la lingua.
Guardare oggi la civiltà tedesca delle tele di Kirchner (risalente al primo '900) significa riconoscere che non abbiamo fatto tanti passi avanti e riflettere bene su quanto poco sia equa e giusta la società che abbiamo costruito ad oggi, nonostante numerose occasioni di conflitto mondiale avrebbero dovuto spingere la collettività a correggersi.

Non si può che avvertire asprezza, alla luce di un fallimento così drammatico e  le figure dipinte da Kirchner possono risultare deformi, ma la trasparenza delle sue tele sulla società è più verosimile e concreta della realtà che i nostri occhi sanno percepire.


uno dei miei preferiti