lunedì 30 dicembre 2013

Eleganza e semplicità - La Danza di Henri Matisse e il Franciacorta



E' ormai da una settimana che si sbevazza alla grande in occasione delle festività natalizie, e non si è ancora giunti alla fine di questo ciclo di mangiate pantagrueliche: oggi infatti è la volta di S. Silvestro, un giorno che, al di là del festone di fine anno, io ho sempre reputato molto importante.

Quando ero un'adolescente goffa e sfigata ho introdotto una sorta di rito propiziatorio in cui con le mie amiche scrivevamo i desideri e i propositi per l'anno nuovo e li bruciavamo all'interno di un posacenere in terracotta.


Era un modo abbastanza poetico per compensare la mancanza dei fuochi d'artificio che i nostri genitori non ci avevano permesso di far scoppiare, e noi morivamo dalla voglia di dar fuoco a qualche cosa. Quest'anno invece, mi scopro essere una giovane adulta pur sempre goffa e sfigata, forse un po' più matura di un tempo, e anziché dedicare tutte le mie attenzioni a quelli che sono i miei desideri più ardenti (perdere 7 chili e trovare un lavoro redditizio) credo che il mio maggiore interesse per la festa di stasera sia quello di salutare l'anno che sta per finire con sincero affetto, perché mi sono divertita un sacco ed ho fatto delle bellissime esperienze.

Cercando un vino per brindare al passaggio dal 2013 al 2014, mi è tornata in mente la frase che dissero i miei docenti del corso di sommelleria durante la nostra primissima degustazione: "Questo è il vino della gioia e della festa!", si riferivano alla Cuvée Brut di Bellavista.

Uno spumante metodo classico che mi ha subito colpito molto: l'ho adorato al primo sorso nonostante mi trovassi agli inizi della mia avventura nell'enomondo, quando non sapevo ancora apprezzare certi vini spiccatamente freschi (che solo tre anni fa chiamavo acidi).

Si tratta di un prodotto di indiscussa finezza, derivato dall'unione di Chardonnay (80%) Pinot Nero e Bianco (20%) "provenienti da più di 100 appezzamenti, coltivati in 10 comuni della Franciacorta", affinati in rovere ed arricchiti dai vini di riserva delle vendemmie precedenti.

Quel che mi interessa di più di questo vino, come spesso accade, sono i suoi profumi: pera matura, agrumi, banana, burro, lievito, crosta di pane regalano una sensazione semplice, domestica confortevole che secondo me ha un ruolo significativo nel costruire l'eleganza per cui questo spumante è tanto noto. Genuino e sincero anche nel sapore che, accompagnandosi divinamente a della pizza bianca farcita con mortadella, conferma quanto la semplicità sia preponderante tra le caratteristiche di questo vino.
Può sorprendere il fatto che uno spumante così raffinato si abbini a un cibo tanto semplice, eppure per pulire la bocca da grassezza e untuosità ed esaltare la tendenza dolce della mortadella non c'è niente di meglio di un vino fresco e dall'effervescenza equilibrata.
Però, siccome io la mortadella non la digerisco (e non digerisco neanche il fatto che non esista una pensione d'invalidità per chi, come me, è intollerante agli insaccati) ho pensato di gustarmi questo vino accompagnandolo a qualcos'altro capace di rispecchiare questo interessante chiasmo di semplicità ed eleganza.


La Danza che Henri Matisse dipinge nel 1909 per il suo cliente abituale Sergei Shchukin e che oggi è conservata al MOMA di New York, sembra starci bene come il cacio sui maccheroni.
Si tratta di una tela molto grande (260 cm × 391 cm) e dalla resa davvero impressionante. A suscitare meraviglia non sono solamente le dimensioni del dipinto o i personaggi giganteschi che sembrano travolgerci, ma anche i complessi rapporti tra lo spazio, i colori e le figure. Sono proprio queste proporzioni, accuratamente studiate, a trasformare un'immagine all'apparenza così semplice in un capolavoro espressionista di fama mondiale.
Ci troviamo di fronte alla seconda opera d'arte più copiata dai bambini per gli esercizi di educazione artistica alle scuole medie*: un girotondo di corpi nudi che si svolge tra la terra e il cielo, e questi tre unici elementi vengono identificati tramite un colore per ciascuno di essi e delle linee di contorno. Non c'è volume, né contrasto di luci e ombre, nessuna prospettiva.
E' l'equilibrio di questa composizione a suggerire che c'è qualcosa in più di tre colori, su questa tela. Il movimento dei corpi ci permette di percepire un ritmo forsennato e interminabile; vorremmo inserirci anche noi e seguire quello stesso bisogno primordiale di girare in tondo senza preoccuparci del perché lo stiamo facendo. Vogliamo essere felici e spensierati, vogliamo seguire l'ordine naturale delle cose, accettarlo per quello che è e farne serenamente parte.
Tutto questo con tre colori e delle linee di contorno.
Becca e porta a casa.
(non che qualcuno leggendo questo post debba necessariamente "abbozzare", è che mi sembra che ci stia bene un "becca e porta a casa" in questo punto del post)
«il mio obiettivo è rappresentare un'arte equilibrata e pura, un'arte che non inquieti né turbi. Desidero che l'uomo stanco, oberato e sfinito ritrovi davanti ai miei quadri la pace e la tranquillità» (H. Matisse)

E io nei quadri di Matisse la pace e la tranquillità ce le trovo.
Se poi in mano ho anche un bicchiere di Franciacorta è proprio una gran pacchia.

*la prima è la Composizione A di Mondrian**
**ci presi ottimo, in seconda media.

martedì 3 dicembre 2013

Moira Ricci e il Barco Reale di Carmignano

Quello di oggi è un post davvero particolare e sono molto felice di condividerlo.
Innanzitutto si tratta di un articolo scritto ad otto mani! Eh si, adesso GewürzARTminer si apre anche alle collaborazioni! :D


Dunque, mi pare opportuno anticipare che questo sarà un post lunghissimo!

All'origine di quest'edizione così speciale c'è il lavoro svolto da me e le mie compagne di studio Giulia Giovannetti, Silvia Carletti e Elisa Sorrentino per il secondo incontro del ciclo di seminari dal titolo "Fotografia, identità e genere" tenutosi il 25 novembre scorso, in cui abbiamo avuto il piacere di intervistare la giovane artista Moira Ricci.

Poiché quest'esperienza si è da subito rivelata sorprendentemente bella, il pensiero di dedicarvi un post apposito qui sul blog non ha tardato a presentarsi, e  siccome sono molto fiera del risultato ottenuto da me e le mie compari, ho deciso sin dai primi giorni di lavoro che avrei pubblicato con tutta probabilità il testo da noi scritto per presentare l'artista al pubblico:

Moira Ricci durante il secondo incontro di "Fotografia, identità e genere"


"Giovane artista originaria di Orbetello, in provincia di Grosseto, Moira Ricci ha trascorso la propria infanzia nella campagna toscana, circondata dall’amore familiare, da cui si è dovuta allontanare in giovane età per trasferirsi a Milano e seguire gli studi di fotografia, prima al centro di formazione professionale Bauer e poi all’Accademia di Belle Arti di Brera.I primi apprezzamenti ufficiali dal mondo dell’arte sono arrivati all’età di 23 anni: dopo la sua prima collettiva – tenutasi nel 2001 a Milano dal titolo Videorom 2.0 – ha esposto in molteplici eventi in gallerie italiane, europee e americane e in due esposizioni personali – INTERFUIT nel 2006 e Da Buio a Buio nel 2009 – ottenendo diversi riconoscimenti, tra cui il primo premio RICCARDO PEZZA del 2000 e quello della “Biennale giovani” di Monza del 2011.
Il lavoro della Ricci trae sempre origine da una necessità personale, è risultato delle esperienze vissute, espressione della volontà di ricordare e insieme custodire il proprio passato. Nelle sue opere i mezzi della fotografia, della videoripresa e, talvolta, della performance sono spesso chiamate a collaborare, per consentire all’artista di esplorare temi principalmente autobiografici e ricostruire la propria storia personale. Quelle della memoria e dell’identità individuale e sociale sono, non a caso, alcune delle tematiche più ricorrenti nei suoi lavori e nelle osservazioni di chi la intervista, giacché la sua produzione, come spiega lei stessa, procede di pari passo con la sua esperienza di vita, è un’autobiografia in fieri[1].
A costituire la complessa costruzione del concetto d’identità sembrano essere, a nostro avviso, tre temi fondamentali: quelli della famiglia, del territorio e della casa.

Attorno al primo tema, quello familiare, si sviluppa il lavoro più noto di Moira Ricci: la serie fotografica 20.12.53-10.08.04, nata dall’improvviso lutto che nel 2004 l’ha colpita: la perdita della madre Loriana. Nella serie, iniziata nel 2004 e conclusa due anni più tardi, l’artista inserisce, attraverso i mezzi del fotomontaggio digitale, la propria figura in una selezione di vecchi scatti che ritraggono la madre. La particolarità che contraddistingue quest’opera è forse la scelta di un iperrealismo capace di disorientare l’osservatore. Moira Ricci cura ogni possibile aspetto determinante la costruzione di un’illusione temporale, grazie alla quale l’impossibile compresenza di madre e figlia in scatti cronologicamente lontani non desta alcun tipo di stupore. A meno che non si conosca il volto dell’artista non si può fare a meno di credersi davanti a delle semplici foto ricordo, dal momento che la Ricci provvede a indossare abiti della moda del periodo e curare attentamente la posa e l’effetto delle luci. L’unico dettaglio che tradisce la perfezione di questo iperrealismo è lo sguardo dell’artista, sempre indirizzato alla madre, come nell’invano tentativo di comunicare con lei. Attraverso il suo lavoro Moira Ricci trasforma la fotografia in un luogo dove rincontrare la madre, come ha raccontato l’artista stessa: “Volevo recuperare il tempo perso passato lontano da lei: così mi sono creata una nuova realtà, sono entrata nelle sue vecchie fotografie, immaginando di esserle lì accanto”.[2]

Dalla serie 20.12.53-10.08.04
Dalla serie 20.12.53-10.08.04
                     
Il dialogo che l’artista instaura con la figura materna viene ulteriolmente elaborato in opere successive, come il video del 2007 Ora sento la musica, chiudo gli occhi, sento il ritmo che mi avvolge, fa presa nel mio cuore – in cui, ancora una volta, l’artista mette in gioco i ricordi personali per dare vita a una performance direttamente dedicate alla madre – e Per sempre con te fino alla morte, del 2012.

Dalla serie Per sempre con te fino alla morte - 2012

Dalla serie Per sempre con te fino alla morte - 2012
In quest’ultima la Ricci tenta di andare indietro fino alle radici dell’affetto familiare, all’amore tra i genitori che è stato alla base della sua crescita. La realtà concreta del ricordo affiora mediante la documentazione di lettere, foto, ritagli di frasi spediti dal padre di Moira alla futura moglie Loriana e si concentra in seguito, tramite la videoripresa, sul lutto del padre, da lui espresso dedicando canzoni all’amata perduta per poi cercare conforto nell’atmosfera conviviale e sociale delle balere. In questi luoghi la Ricci ha osservato a lungo i comportamenti dei vedovi in cerca di un nuovo amore, che le riportano alla mente qualcosa di familiare, simile agli innamoramenti adolescenziali e la inducono a interrogarsi sulla realtà sentimentale della propria generazione. Racconta l’artista: «Mi sono calata nella loro età, nella loro situazione pensando a chissà se anche noi saremo così, se c’incontreremo in luoghi alla ricerca di una compagnia fino alla morte»[3].

Dalla serie Da buio a buio - 2009
Al secondo tema, quello del territorio, è dedicata la documentazione delle vite di alcuni celebri protagonisti delle vicende di cronaca della campagna maremmana, realizzata nel 2009 e intitolata Da Buio a Buio. Qui invece, l’iperrealismo è lo strumento in grado di concretizzare le leggende popolari radicate nell’immaginario collettivo Maremmano. Strani personaggi come la Bambina cinghiale, l’Uomo sasso o Vasco Lumediluna (un misterioso licantropo), conosciuti in una località circoscritta tramite la tradizione orale, grazie all’opera della Ricci prendono forma e si mostrano ad un vasto pubblico che incredulo viene a contatto con l’intimità dei luoghi in cui l’artista è cresciuta.


Loc. Collecchio, 26 - 2001
Il terzo tema, quello della casa, viene affrontato in due lavori, entrambi espressione dell’importanza che il nucleo familiare e i luoghi dell’infanzia hanno avuto per la formazione dell’identità dell’artista. In Loc. Collecchio, 26 del 2001, attraverso la tecnica del collage fotografico, l’artista ricostruisce gli ambienti della sua prima casa e li popola di tante piccole immagini di se stessa, ritagli delle foto scattatele dalla madre. Attraverso quest’operazione la Ricci ottiene delle immagini che si trovano a metà strada tra il gioco della casa delle bambole e la dolcezza mista a malinconia propria delle foto di famiglia. L’opera nasce dall’esigenza di fermare nella memoria il ricordo della casa di Orbetello a causa della ristrutturazione che avverrà di lì a poco e trasformerà definitivamente quel luogo tanto familiare ai suoi occhi. Una Moira ancora neonata fa il bagnetto, dietro di lei Moira adolescente sfoggia il suo costume giallo, poco più in là Moira, ora giovane donna, posa per lo scatto, con gli occhi infastiditi dalla potente luce del sole estivo. 
Custodia domestica - 2003/04 
Custodia domestica -2003/04

Per la Ricci la casa è anche il luogo in cui sentirsi protetti, con cui farsi scudo. E così sceglie di indossarla come capsula di sicurezza in una metropoli in cui si sente confusa e sperduta, dando vita alla performance milanese, poi trasformata nell’installazione video del 2003-2004 dal titolo “Custodia domestica”. L’artista ricostruisce la propria casa in miniatura, su ciascuna faccia del cubo una finestra mette in comunicazione l’interno con l’esterno, facendo risaltare il bizzarro contrasto fra la grandezza dei passanti che, incuriositi, si affacciano per sbirciare e l’atmosfera intima che regna in queste minuscole stanze, arricchito dall’audio che ripropone i tipici rumori domestici.


Raccontando l’esperienza personale con questa profonda sincerità Moira Ricci porta lo spettatore a identificarsi, attraverso un “effetto specchio”, nella storia narrata e quindi a riflettere sulla propria, riconoscendo con quanta energia la memoria agisca su ogni singolo individuo. Con la forza e il dolore necessari per fare della propria vita un’opera d’arte l’artista si esplora e si racconta, parte da sé senza la presunzione di voler insegnare nulla, ma con il coraggio di rendere espliciti i propri strumenti di ricerca e catarsi. Aggiungendo ulteriori livelli di lettura a materiali visivi estrapolati dal proprio contesto familiare, l’artista permette allo spettatore di indagare nella sua realtà più privata di bambina, donna, artista, maremmana e viaggiatrice. E allo stesso tempo i suoi lavori si staccano da lei per dirci qualcosa del nostro essere persone, figli, genitori, abitanti e viaggiatori.





Da sinistra a destra: Giulia Giovannetti, Elisa Sorrentino, Moira Ricci, io e Silvia Carletti.



[1] Simi G., Assenza/presenza in Moira Ricci. Immagine (im)possibile O Iperrealismo?, http://www.digicult.it/it/digimag/issue-052/absencepresence-impossible-images-by-moira-ricci/.
[2] Fincato O., Viaggio negli affetti di un’artista, http://www.oggi7.info/2008/01/14/636-viaggio-negli-affetti-di-unartista,
[3] Carnevale R., Con te fino alla morte – Intervista a Moira Ricci, http://quotemagazine.it/per-sempre-con-te-fino-alla-morte-moira-ricci/, 2013.

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Nonostante questa abilità nell'elaborare contenuti molto complessi e personali, la Ricci si è presentata al suo pubblico di Studenti e Professori universitari con spontaneità ed umiltà, guadagnadosi la simpatia e l'ammirazione di molti di noi.


Sulla scia di temi quali semplicità, famiglia, identità e "toscanità", penso che il vino maggiormente capace di rappresentare l'opera generale della Ricci possa esser il Barco Reale di Carmignano prodotto dalla Fattoria Ambra, un vino ovviamente Toscano, tanto semplice quanto ricco, ossimoro che ho trovato piuttosto coerente in questo caso.
Tanto per iniziare, anche questo vino, come la Ricci, può vantare qualche riconoscimento prestigioso, infatti, come possiamo leggere dal sito della produzione, nel 2010 guadagna 2 stelle nella guida Veronelli, mentre l'annata successiva viene valutata 90/100 da Stephen Tanzer.
Un vino molto apprezzato, considerato "la versione più giovane del Carmignano, una delle più piccole e antiche denominazioni del mondo (Bando del Granduca Cosimo III de'Medici del 1716)" stando a quanto recita la controetichetta della bottiglia. Si tratta di un taglio tradizionale della zona: Sangiovese in prevalenza (75%) accompagnato a una piccola percentuale di Cabernet, indicato qui come Uva Francesca (cosa che mi fa sempre gongolare), brevemente affinato in tonneaux.
Inzialmente è stata la versatilità di questo vino nell'abbinamento con il cibo, a ricordarmi le opere della Ricci, così capaci di raccontare tanto la vita dell'artista quanto la nostra. L'idea delle grandi tavolate in famiglia in occasione del pranzo della domenica mi ha fatto associare questo vino alle numerose foto di gruppo spesso trasformate dall'artista.
Anche il colore, un porpora leggermente rossastro, fa percepire quanto un vino semplice come questo possa aver qualcosa da dire.
La ragione per cui il Barco Reale mi pare particolarmente azzeccato è principalmente dovuta, però, alla singolare raffinatezza dei profumi di un vino così dichiaratamente beverino. Una bevanda da tutto pasto, dall'alcolicità garbata (13%), che al naso sa legare aromi decisi di piccoli frutti rossi e susine mature a sentori speziati e caldi come pepe, karkadè, un po' di vaniglia e un "cincinnino"* di caffè. 
Un vino che, nonostante la sua immediata gradevolezza, cela una gamma di profumi intensi, variegati e pulsanti, allo stesso modo in cui i montaggi fotografici di Moira Ricci, dopo una prima sensazione di tenerezza ci portano a riflettere su questioni "brucianti" come la memoria, la nostalgia e l'identità individuale e collettiva.





*perché essere formali, precisi o tecnici è pizzoso.